Partito di Alternativa Comunista

Un esempio di collaborazione di classe

Il significato storico della Costituzione del '48

Un esempio di collaborazione di classe

 

 

Claudio Mastrogiulio

 

 

 

Una breve contestualizzazione

 

Come ben si comprende, da un approccio materialistico alla questione, l’Italia repubblicana ha mantenuto legami netti e concreti con il proprio passato remoto, quello liberale, e con il passato prossimo, quello fascista. Basti pensare al fatto che il Codice Civile italiano, vale a dire l’insieme di regole che determinano i rapporti tra i singoli, è un retaggio del regime fascista. Esso fu infatti redatto per ordine di Mussolini il 16 marzo del 1942.

Oltrepassando il guado della continuità manifesta, v’è da analizzare quello, più sottile ma anche più insidioso, della continuità delle leggi borghesi rispetto ai dettami fascisti. Al contrario di quanto affermano tanti storici, politologi contigui alle istanze del potere borghese repubblicano, il fascismo non ha rappresentato un momento di rottura rispetto al passato giolittiano e liberale. Quest’approccio analitico deriva dalla storia concernente la nascita dello stesso movimento fascista. Il ventennio mussoliniano ha rappresentato una parentesi politico-economica frutto della degenerazione del liberalismo, che ne ha permesso la nascita e la crescita. Dopo il 1917 ed il grandioso avvenimento della rivoluzione russa, la classe operaia italiana aveva acquisito una radicalità tale da porsi come forza sociale in grado di sostituire al regime della cricca di sfruttatori industriali ed agrari, un governo dei lavoratori per i lavoratori. Per questa motivazione si permise, dalla sponda liberale, il proliferare di squadracce fasciste incaricate del cosiddetto lavoro sporco, quello consistente nell’intimorire la classe operaia e contadina, aggredendone puntualmente rappresentanti e devastandone in modo altrettanto cadenzato sedi e luoghi di ritrovo. Queste le motivazioni che, in senso materialistico, hanno portato alla crescita del movimento fascista. La continuità tra il grande padronato italiano e coloro che debbono essere considerati i cani da guardia del Capitale, si consolidò anche dopo la presa del potere da parte di Mussolini, cioè dopo la Marcia su Roma del 28 ottobre 1922. Nella prima parte del ventennio, infatti, fu possibile osservare nomi di molti esponenti liberali accoppiati agli scranni ministeriali dell’esecutivo mussoliniano. Il liberalismo aveva un solo ed unico nemico sociale da combattere: il movimento operaio e la sua rappresentanza politica.

Dopo l’omicidio Matteotti, nel 1924, i liberali furono costretti dagli eventi ma anche dallo stesso Mussolini ad uscire dal governo ed a porsi in un’opposizione tendente, sin dal primo minuto, a non lasciare eccessivo spazio di manovra a quel nemico sociale di cui la borghesia continuava a non fidarsi. Come la storia ci insegna, questo desiderio dei rappresentanti liberali italiani trovò sponda nel Partito socialista, attento ad incanalare l’humus rivoluzionario delle masse oppresse italiane in una innocua, falsa quanto deleteria “secessione sull’Aventino”. Il Pcd’I, al contrario, non ancora terminato nelle grinfie opportuniste di Togliatti, trovava in Gramsci il fautore dell’unica prospettiva realmente progressiva ed affrancatrice per le classi oppresse dal fascismo, vale a dire lo sciopero generale. Malgrado le condizioni lasciassero oggettivamente pensare ad un’insurrezione sociale generalizzata, ebbe la meglio il diktat del fronte liberal-socialista con tutte le conseguenze che conosciamo: abolizione delle organizzazioni politiche che non fossero quella fascista, abolizione dei sindacati, leggi razziali, politiche economiche antioperaie, guerra imperialistica al fianco del nazismo, milioni di morti civili, uccisioni di prigionieri politici.

 

Il passaggio da un regime ad un altro

 

Dopo la caduta di Mussolini il 25 luglio 1943, s’iniziò ad osservare la ramificazione del fenomeno di liberazione nazionale e di classe partigiano. Nel 1944, Togliatti, appena tornato da Mosca dove nel frattempo era divenuto uno dei più fedeli esecutori dei desiderata stalinisti, pronunciò a Salerno un discorso dalla valenza politica fondamentale. In questo discorso Togliatti sanciva l’apertura da parte del partito di cui, dopo la morte di Gramsci nel 1927, era divenuto segretario ad un’alleanza interclassista con le altre organizzazioni politiche ricostituitesi durante il governo Badoglio, mirante a cacciare definitivamente Mussolini che nel frattempo, liberato il 12 settembre 1943 sul Gran Sasso dai nazisti, aveva costituto la Repubblica Sociale Italiana, con sede a Salò. Ma ormai l’opposizione sociale, lo sfaldamento dell’esercito diviso nei seguaci della Rsi ed in chi s’unì ai partigiani sulle montagne, l’avanzamento nordamericano dalla Sicilia dopo la sconfitta nazifascista sul fronte di El Alamein (1942), erano fattori troppo importanti ed insopportabili per l’ormai decaduto regime fascista. La fine inconfutabile della parentesi fascista venne decretata con l’insurrezione del 25 aprile 1945 che liberò le grandi città del settentrione d’Italia.

Ora, abbattuto il fascismo, avrebbe dovuto esserci il distinguo fondamentale che connota un approccio marxista alla tattica del fronte unico, quello attraverso cui il movimento di classe partigiano doveva raggiungere l’obiettivo per il quale negli anni precedenti aveva lottato, la conquista e la trasformazione del potere borghese in un governo dei lavoratori per i lavoratori. Occorreva che Togliatti avesse un atteggiamento simile a quello di Lenin nei confronti del tentato colpo di stato del generale controrivoluzionario Kornilov durante il governo borghese di Kerensky; un atteggiamento che portò i bolscevichi a combattere ed opporsi al tentativo del generale filozarista senza tuttavia annacquare o perdere la propria autonomia politica, organizzativa e tattica, senza dimenticare il proprio ruolo di guida delle classi subalterne e soprattutto, senza cadere nel mortale errore di far la corte ai fatti venerando il governo Kerensky come il migliore possibile. Questa fu la differenza sostanziale tra il burattino di Stalin, Togliatti, e Lenin; a dimostrazione della discontinuità tra il leninismo e lo stalinismo rispetto allo straparlare della stampa borghese e di tanta parte della pseudo-intellighenzia radical chic, che vorrebbero porre rozzamente ed anacronisticamente sullo stesso piano due eventi storici totalmente in antitesi tra loro. Nel primo governo De Gasperi, Togliatti accettò per ordine di Stalin oltre che per una sua innata propensione alla gestione del potere borghese l’incarico di ministro di Grazia e Giustizia.

 

Miracoli della collaborazione di classe: un “comunista” ministro di Grazia e Giustizia

 

Una prima evidente, macroscopica conseguenza della collaborazione di classe accettata dal Pci fu la nomina a ministro di Grazia e Giustizia per Togliatti. Queste briciole, che vedremo più avanti manifestarsi sottoforma di dettato costituzionale, sono la traduzione della castrazione della forza propulsiva e rivoluzionaria del movimento di liberazione nazionale e di classe partigiano e si oggettivano, a loro volta, nella fatale dimostrazione di affidabilità dei “comunisti” rispetto ai dettami della classe dominante ricostituitasi, dopo la parentesi in camicia nera, sotto le mentite spoglie della “democrazia”. Una democrazia borghese che, soprattutto grazie all’appoggio di organizzazioni politiche che avrebbero dovuto abbatterla, riuscì ad avere il sopravvento rispetto alle istanze di reale affrancamento delle classi oppresse da qualsivoglia forma di sfruttamento, sia che si presentasse in camicia nera oppure con lo scudo crociato. Come dicevamo, la collaborazione di classe ha i suoi “miracoli” (Togliatti ministro di Grazia e Giustizia) ma ha anche il suo prezzo implacabile. Il prezzo che il proletariato italiano dovette pagare per permettere a Togliatti di poggiare le proprie terga sullo scranno ministeriale fu l’adozione, da parte del medesimo maggiordomo di Stalin di misure talmente inaccettabili che videro uno scavalcamento a sinistra, in quel dato momento, del Psi di Pertini e Nenni (non certamente due bolscevichi!) rispetto al Pci. Queste misure sono l’amnistia che porta la firma in calce del ministro “comunista” per i fascisti e la loro totale riabilitazione circa l’occupazione di incarichi pubblici; mentre tanti partigiani venivano condannati ad anni di carcere per atti di guerra commessi durante la Resistenza. La seconda misura che Togliatti decretò di suo pugno fu la ratifica, attraverso l’articolo 7 della Costituzione, dei Patti Lateranensi tra il Vaticano ed il fascismo. Fondamentale per capire la doppiezza togliattiana ed il suo asservimento a ruolo di garante delle peggiori politiche di pacificazione sociale e reazione, è la sottolineatura della natura del Trattato stipulato tra il Vaticano ed il fascismo l’11 febbraio 1929. I Patti Lateranensi sono costituiti da quattro allegati annessi che sanciscono la sovranità e l’indipendenza dello stato Vaticano e da un Concordato che invece regola i privilegi economici che lo stato italiano (prima fascista e poi repubblicano) elargisce al Vaticano; tra questi bisogna ricordare l’esenzione dal pagamento dell’Ici (tassa sugli immobili) sugli edifici di proprietà della Chiesa, il conferimento di valore civile al matrimonio religioso, il cosiddetto 8 per mille che conferisce al Vaticano miliardi di profitti provenienti dalle tasse pagate dai lavoratori italiani (il cui equivalente è utilizzato dal Vaticano per coprire e mantenere sotto silenzio gli abusi sui bambini da parte di preti cattolici), un risarcimento che lo stato italiano riconosce al Vaticano di 2 miliardi in titoli di stato per la fine del potere temporale e l’abbattimento, con la Breccia di Porta Pia, dello Stato Pontificio.   

Queste le drammatiche conseguenze che, immediatamente, la collaborazione di classe in Italia ha causato. La continuazione e la perpetrazione di queste ingiustizie, sperequazioni, disuguaglianze sociali sono poi state cristallizzate tramite il dettato costituzionale, per anni ipocritamente presentato dal Pci come una conquista dei lavoratori.

 

La posizione che i comunisti devono avere

 

Questa Carta marcatamente speculare agli interessi ed alle direttive degli accaparratori, industriali o agrari che fossero, è il concreto risultato di un accordo disciplinato tra le classi; un accordo a perdere per le classi subalterne nostrane che vedevano doppiamente svenduto il loro possibile trionfo di massa in virtù di un compromesso che avrebbe cristallizzato i privilegi di pochi e le vicissitudini economico-sociali di molti. Ovviamente questo lavoro di svendita fu permesso dalle rappresentanze (leggi Pci in primo luogo) che nel movimento partigiano ebbero un ruolo determinante circa l’annacquamento del proprio portato genuinamente rivoluzionario. Fu così che le classi dominanti, spodestate ma subito rimesse in sella dall’opportunismo dei burocrati stalinisti, poterono ricamare un abito congeniale rispetto alla prosecuzione del proprio dominio camuffandolo, anche grazie ad evidenti equilibrismi sintattici, da neutro elemento di tutela dei diritti e dei doveri del “cittadino”, soprassedendo sulle caratterizzazioni e le differenziazioni di classe che invece connotano un sistema capitalistico.

A sessant’anni dalla ratifica di quell’evento, mentre i nuovi attori del compromesso di classe (Prc, Pdci, Verdi, Sd) continuano a prestarsi al ruolo di ammortizzatori, di pompieri delle lotte sociali che inevitabilmente questo sistema economico si porta in dote; c’è chi, come il Partito di Alternativa Comunista, continua cosciente nell’opposizione a quest’ordine sociale ed economico unilateralmente imposto perché pensiamo che il reale affrancamento dei lavoratori e degli sfruttati in generale non possa trovare risposta in qualche periferico ricamo dell’ampolloso abito borghese; ma, accompagnati dagli insegnamenti che la storia ci offre, pensiamo che la vera libertà degli oppressi dalla schiavitù salariata debba avvenire attraverso l’abbattimento del sistema che tutto ciò ha permesso. Gramsci scriveva: “la storia insegna, non ci sono scolari ad ascoltarla”.

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