Ci siamo: l'Alitalia prende il volo!
Ci siamo: l’Alitalia prende il volo!
Considerazioni su una privatizzazione da sempre annunciata
Andrea Spadoni*
Davvero violento l’attuale scontro politico e sindacale sulla vendita dell’Alitalia, ma anche palesemente strumentale alle logiche capitalistiche della spartizione del potere economico, soprattutto se ci si sofferma sulle posizioni espresse e sui temi del contendere, incentrati sulle compatibilità politiche del compratore, più che sulle sue capacità industriali. Intendiamoci, non che un padrone sia meglio di un altro, né che sia buona pratica per i lavoratori co-gestire le aziende con il padrone stesso, quale esso sia. Siamo sempre stati convinti, non certo ideologicamente, che la privatizzazione dei servizi pubblici è un errore politico gravissimo e un danno sociale intollerabile: un servizio pubblico deve rimanere di proprietà e gestione pubblica così come il sistema di infrastrutture e controlli in cui esso opera.
Siamo oggi alla fine di un’interminabile procedura, avviata più di dieci anni fa, ma giunta solo da qualche mese nella sua fase, a quanto sembra, decisiva. Una dilazione dovuta non a dubbi sull’opportunità della privatizzazione di un servizio di pubblica utilità, ma ad un’instancabile melina su chi e come debba raccogliere questo potere, condotta dalle molte lobby che si spartiscono la gestione del potere (politico ed economico) che questa grande azienda rappresenta. Ma se si vuole ragionare seriamente occorre sgomberare il campo da demagogia, gioco delle parti e, soprattutto, interessi particolari.
Facciamo un po’ di chiarezza
Si privatizza perché “l’azienda è in crisi”. Falso! Il mercato del trasporto aereo è in crescita costante da anni, con valori che oscillano tra il 4 e il 6% e Fiumicino, base d’armamento dell’Alitalia, è anch’esso in forte crescita. Il vero problema è nella gestione dell’azienda e del sistema infrastrutturale connesso: i biglietti si vendono, ma si spendono più soldi di quelli incassati, al ritmo di più di un milione al giorno di perdita. Insomma, l’azienda (il lavoratore) produce, ma il management sperpera.
Malpensa si, Malpensa no. Da anni la Lega, Formigoni, Moratti e tutti i “nordisti” invocano il fallimento dell’Alitalia, ma, proprio ora che questa sembra intenzionata ad andare via, si strappano le vesti in difesa della “loro” economia. Un gioco delle parti, teso solo a mettere in imbarazzo il governo avversario, che si combina con l’azione demagogica delle burocrazie sindacali lombarde, intenzionate a ritagliarsi un più ampio spazio di potere. A parte ciò, sul piano strettamente industriale, Malpensa era e rimane una scelta perdente, non possedendo le caratteristiche di un vero hub, sia dal punto di vista geografico e logistico, che da quello del bacino di mercato. Il grosso e il meglio del traffico non appartengono al nord, anche perché il vero business del trasporto aereo in Italia è dato dal turismo e dai pellegrini, quindi verso il centro-sud, mentre il traffico d’affari è in parte storicamente catturato dal centro-Europa (Svizzera e Germania). Del resto, è folle pensare che in Italia si possano avere due hub, con un traffico passeggeri totale inferiore a quello della Francia o della Germania o dell’Inghilterra che però di hub ne hanno uno solo. Fiumicino e Malpensa, insieme, non arrivano al numero di passeggeri che transitano per Londra, Parigi o Francoforte. Come è possibile pensare di mantenere due hub quando tutti ammettono che la massa critica dei volumi è determinante perché la condizione di hub si realizzi? Tant’è vero che Malpensa è in netto calo. A questo si deve aggiungere che l’Alitalia non ha intenzione di “andare via” e basta, come se fosse ragionevole buttare a mare quel traffico che, per quanto non abbia volumi da hub, insiste comunque nell’area lombarda. In realtà, il piano è quello di spostare i voli intercontinentali (tranne tre) a Fiumicino e utilizzare gli slot così liberati per collegamenti internazionali point-to-point, che interessano maggiormente il traffico d’affari.
Altro tema caro ai commentatori politici è quello dell’assenteismo, collegato a quello della produttività e degli esuberi. Si tratta di un dato volutamente inesatto. Tutte le aziende (anche quelle pubbliche) gonfiano la statistica con assenze che non sono da considerare, come le maternità, gli infortuni e le malattie sporadiche, così come non si possono considerare assenteisti i malati con patologie invalidanti o particolarmente gravi. Un distinguo va fatto per i permessi sindacali, anch’essi inseriti in statistica. Mentre un rappresentante dei lavoratori, che è regolarmente presente in azienda e si assenta solo il tempo necessario ad incontri con le aziende e le istituzioni, non è assenteista, lo sono invece quelli che curano i loro interessi personali (o di qualche politico…), utilizzando permessi e distacchi che sono del resto concessi dalla benevolenza interessata delle aziende stesse. Che poi però li tacciano di assenteismo! È ovvio che le burocrazie sindacali sono interessate ad assecondare le aziende, anche alla luce delle deboli e inconcludenti proteste che, raramente, sollevano sull’argomento.
Continua, da anni, la lotteria degli esuberi. Dal 1994 ad oggi, ogni piano presentato dai vari CdA succedutisi si è incentrato sulla presenza di migliaia di esuberi e sull’aumento di produttività. Mobilità, Cigs, solidarietà, mobilità, flessibilità, mancati rinnovi contrattuali, mancato pagamento degli straordinari, mancati riposi, pre-pensionamenti: l’aggressione alla forza lavoro è stata costante e falcidiante. Nel contempo, però, l’uso e l’abuso del precariato sono cresciuti fino ad arrivare, nei settori chiave, a percentuali vicine al 90%. Si licenziano lavoratori esperti, stabili, si assumono precari. Evidentemente non ci sono esuberi, ma solo la voglia di pagare meno chi produce per tappare così qualche buco.
In conclusione, tutti gli argomenti portati dalle forze politiche, inclusi Prc, Pdci e Verdi, dalle corporazioni dei piloti e degli assistenti di volo, da Cgil, Cisl, Uil, Ugl, Sdl, ma anche da molti dirigenti interni (tutti più o meno espressione delle figure sopra elencate), mirano a mantenere lo stato attuale di gestione concertata attraverso il sostegno a Carlo Toto (AirOne), uno dei tanti speculatori al traino di politici di spicco (Rutelli e D’Alema, nello specifico). L’arrivo di un padrone “vero” secondo la logica del capitale, come l’Air France: prima compagnia in Europa, in attivo da anni, controllata di fatto dallo Stato (?), con un rapporto dipendenti/aeromobili doppio di quello dell’Alitalia, metterebbe in grave incertezza le pratiche concertative che tengono in piedi un enorme giro di assunzioni, carriere, favori, appalti, consulenze, distacchi sindacali permanenti…
Azienda pubblica per lavoratori e utenti
La risposta giusta è e deve invece essere il mantenimento della proprietà pubblica e del pubblico controllo dell’Alitalia e dei principali aeroporti. Già la privatizzazione della sanità, della scuola, dell’energia, dell’acqua, degli aeroporti, di parte del trasporto, ha portato allo scadimento dei servizi e all’aumento dei costi.
Le lavoratrici ed i lavoratori, ma anche gli utenti (proprietari e fruitori del servizio), si devono mobilitare per opporsi a questa e a tutte le privatizzazioni. E’ quello che sta avvenendo nel Centro Direzionale e nei Servizi Informatici Alitalia, dove la Cub Trasporti ha promosso e stravinto le elezioni per le Rsu, portando a votare il 60% dei dipendenti contro l’ostruzionismo dell’azienda e il boicottaggio di Cgil, Cisl, Uil, Ugl, Sdl. Un risultato che dice no al sindacato burocratico e concertativoi, no alle politiche aziendali di privatizzazione e terziarizzazione. Un risultato che conferma che, per il proletariato, le uniche armi possibili per difendere i propri diritti sono la mobilitazione, l’organizzazione unitaria e lo sciopero permanente e continuato.
* Dirigente Cub Trasporti Alitalia