Preferirei di no
Il nuovo orizzonte del comunismo bertinottiano
Il modello Marchionne
Francesco Ricci
Fa un certo effetto vedere in Tv Fausto Bertinotti, attorniato da carabinieri in alta uniforme, che, col fare paterno di un presidente della Camera di tutti gli italiani, discetta su ogni argomento possibile, dal cinema all'astronomia, trovando per tutto parole di saggezza, ben lontane da ogni umano contrasto e tanto più da lotte tra le classi.
E' una sfida continua al principio di identità, una immedesimazione nella parte da far ingelosire anche il camaleontico De Niro e i suoi anni di esercizi all'Actor's Studio.
Se non fossimo certi che l'identità socialdemocratica dell'ex segretario di Rifondazione è rimasta inalterata, sotto l'abito presidenziale, proveremmo quasi nostalgia del Bertinotti che si faceva fotografare con Marcos e il suo passamontagna o di quello che alla Direzione del Prc ci infliggeva per ore le nozioni apprese in notturne letture da sconosciuti testi di sociologia francese e svedese.
Non si danno in natura esempi di trasformazioni così rapide, repentine. A guardarlo mentre con sussiego agita la campanella in aula e si rivolge con garbo ora a un deputato forzaitaliota ora a uno della Margherita; vederlo spiegare con puntiglio ai rappresentanti della borghesia le regole della democrazia borghese, come se si trattasse di un corso di galateo; osservarlo mentre chiacchiera amichevolmente con Casini o scambia battute sul calcio con Berlusconi...
Le metamorfosi della letteratura, dal ripugnante insetto in cui si trasforma il triste Gregor Samsa allo schizofrenico Jekyll e Hyde stevensoniano, non reggono il paragone. Viene alla mente soltanto - pallido confronto - quel Leonard Zelig di Woody Allen che ha talmente bisogno di essere accettato nell'ambiente in cui si trova da mutare il proprio comportamento, il modo di parlare e persino l'aspetto, fino a mimetizzarsi perfettamente con quanto lo circonda. E' quanto succede anche al presidente Bertinotti. Sembra quasi che sia nato alla Camera e cresciuto negli abiti del politico borghese; è come se non avesse mai urlato in una piazza (seppure per convincere i movimenti a portarlo al governo).
Questa straordinaria trasformazione, dovuta soltanto all'essersi seduto su una poltrona di velluto posta un po' più in alto in quello che la Luxemburg definiva "il pollaio della democrazia borghese", non conosce limiti di perfezionamento.
Dopo averci spiegato con libri, discorsi e articoli per un paio d'anni (ma lo spiegava più alla borghesia che non a noi) che l'orizzonte del comunismo si avvicinerà un giorno senza purtuttavia provocare traumi né modifiche sostanziali al capitalismo (cosa che è piaciuta ai padroni tanto da promuoverlo come affidabile dirigente di un partito pronto per il governo), ora Bertinotti cerca con ogni mezzo di passare alla storia della socialdemocrazia. Siccome è uomo di grandi letture sa bene che se si limitasse a dire - come ha fatto questa estate con interviste a Liberazione e al Corriere - che bisogna far crescere "l'alleanza con quel pezzo di borghesia che è disposta ad andare oltre il liberismo" (1) non direbbe nulla di rilevante. L'alleanza con la "borghesia produttiva", con il capitalismo buono, è cosa che ha già sostenuto ai suoi tempi Togliatti e dopo di lui Berlinguer e prima di entrambi Bernstein. Bisogna andare oltre, se si vuole lasciare un segno nella storia miserabile della socialdemocrazia. E allora non basta votare l'invio di alpini in Afghanistan in nome della "riduzione del danno" o salutare impettiti le truppe d'assalto che partono per portare un po' di pace (eterna) ai militanti libanesi. Non basta nemmeno votare quella nuova rapina ai lavoratori e ai pensionati che chiamano Finanziaria. Non basta. Bisogna andare oltre; oltre gli incontri conviviali con gli industriali a Cortina d'Ampezzo. Oltre i dibattiti alla festa di Fini. Oltre le parate militari e i funerali di massacratori di irakeni.
E Bertinotti ci è riuscito, quest'estate, ad andare davvero oltre. Cosa può dire un comunista (o uno che così viene chiamato) per stupire e passare alla storia o guadagnarsi almeno una noticina a fondo pagina? Può dire che il modello ideale di società che ha in mente, di relazioni tra padroni e operai che sogna è impersonato nell'amministratore delegato della più grande industria del Paese, la Fiat. E' dall'ambizione di essere ricordato che è nato quest'estate il nuovo orizzonte di Bertinotti-Zelig e della sua Rifondazione Comunista.
E' così che Bertinotti ha parlato di "modello Marchionne". Un padrone come modello da proporre agli operai, simbolo del nuovo comunismo. Oltre ancora non si può andare: perché c'è solo il ridicolo.
(1) Si legga la memorabile intervista a Liberazione pubblicata il 30 luglio 2006.