Partito di Alternativa Comunista

Rifondazione: il grande inganno

Rifondazione: il grande inganno

Un facile bilancio dei primi cento giorni di governo

 

Enrico Pellegrini

 

“Verso un mondo nuovo”, questo era lo slogan dell’ultimo congresso di Rifondazione Comunista conclusosi a Venezia nel marzo del 2005. Poche e semplici parole che alimentavano le speranze di parecchi militanti e compagni di base del partito, i quali, accettata fino in fondo la svolta bertinottiana del futuro ingresso nel nuovo governo Prodi dell’anno successivo, riponevano tutti i loro sforzi nel cercare di comprendere che nulla di meglio e di alternativo ci fosse di fronte allo “spauracchio” Berlusconi.

 

Un tradimento annunciato da tempo

 

Sono passati pochi mesi dalle elezioni e, dopo i primi cento giorni, ci si accorge che, non solo il tanto decantato “mondo nuovo” non è apparso come le sirene bertinottiane auspicavano noscondendo un malcelato opportunismo, ma quello “vecchio” continua a mostrarsi con estrema ruvidezza e cinismo: ciò che di peggio il sistema capitalistico ha sempre offerto, guerre, saccheggi, sfruttamenti sociali, devastazioni ambientali, impoverimento generale progressivo, sono ancora la cornice di vita di milioni di lavoratori e di giovani.

Emerge con chiarezza, quindi, soprattutto agli occhi di chi non ha fatto i conti con la reale natura del rapporto struttura/sovrastruttura in ambito economico-produttivo e politico-rappresentativo, l'impossibilità di gestire dall’interno di una compagine governativa (di centrosinistra, per carità!) le crisi e le contraddizioni profonde di un mercato selvaggio eretto a sistema senza attaccare violentemente le condizioni e le conquiste sociali dei lavoratori.

Con logica chirurgica, Rifondazione Comunista ha anticipato tale infausta prospettiva, con una gestione del potere a livello locale a dir poco vergognosa: dietro l’altro celeberrimo slogan “un altro mondo è possibile”, si succedevano, infatti, nelle giunte locali (Bologna, Venezia, Napoli, Genova, Roma, ecc…) accordi e contro-accordi che manifestavano chiaramente la vera natura di questo partito. Ne risultava un organismo non inserito nelle lotte sociali, nei luoghi produttivi, negli ambienti di lavoro, nei sindacati con voce unanime, ma un qualcosa di assolutamente diverso, addirittura grottesco nell’articolare la sua proposta politica, finalizzato a marcare la compatibilità col futuro ruolo di garante sociale che la partecipazione al governo Prodi gli avrebbe imposto di lì a poco.

Consiglieri, amministratori, assessori, portaborse, presidenti vari: sono in ultima analisi le leve decisionali del partito, tutto circoscritto all’interno di una volontà plasmata nel tempo: l’obbedienza al neo-presidente della Camera dei Deputati, artefice massimo di glorie e onori per vassalli e valvassori posti al riparo su qualche comoda poltrona.

 

Cento giorni di guerra prima di un autunno caldissimo

 

Il marxismo reputa essenziale il concetto di Stato nel sistema capitalistico, esso appare come il nocciolo di ogni questione o problema serio analizzato da un punto di vista di classe; la possibilità di inserirsi, come forza politica, nelle sue istituzioni non va confusa (come molti astensionisti credono) con la volontà di dirigerne l’azione, dal momento che questa è determinata da ben altri fattori (lo si diceva prima).

Un conto è però usare la cosiddetta “tribuna parlamentare” in termini attivi e militanti, un altro individuare in essa l’orizzonte ultimo su cui spendere ogni energia e impegno al fine di gestire il potere dei padroni a braccetto con i padroni stessi.

Ciò che appare in maniera grave oggi è che il tutto viene accettato da parecchi militanti come una dinamica ineludibile, come se Prodi rappresentasse l’esito ultimo di tutta l’eredità della storia comunista in Italia. Le prime operazioni del neo-governo Prodi hanno fatto ovviamente nascere più di qualche critica nella sinistra del Prc: è avvenuto, in effetti, per così dire, un netto slittamento semantico per cui, tanto per citare un esempio, i circa tremila militari in Libano e i duemila in Afghanistan non rivestono più un ruolo operativo per gli interessi dell’imperialismo italiano nell’aspra competizione geo-politica mondiale, ma un differente e “distinto” compito di pace e di interposizione tra le eventuali parti in conflitto.

La nuova finanziaria rischiarerà definitivamente le idee anche ai più riottosi e ai più ingenui, dando sicuramente a Bertinotti, dall’alto del suo scranno, il compito di ricondurre ogni malumore e mal di pancia dei vari compagni “critici” nell’alveo della buona condotta “fiduciosa e responsabile” allo scopo di non far saltare questo Governo, culla di nuovi dolori, delusioni e sacrifici per milioni di lavoratori italiani.

Allo stesso tempo, ovviamente, questi voltafaccia continui sono adeguatamente accompagnati da ridondanti dichiarazioni di dolorosa critica al futuro operato del Governo da parte della cosiddetta “sinistra radicale” di cui Rifondazione fa parte; dichiarazioni comprensibili solo in chiave giustificazionista nei confronti di un elettorato che giorno dopo giorno, sui vari temi affrontati (guerra, sanità, lavoro, pensioni), non riesce più a digerire dichiarazioni un tempo ritenute impensabili.

All’improvviso dal vocabolario dei vari Gianni, Migliore, Giordano, Russo Spena “e compagnia cantante” sono completamente scomparse parole un tempo ritenute bandiera di una propaganda elettorale durata diversi anni: conflittualità sociale, opposizione politica, intransigenza programmatica, valori del lavoro ecc…

Ovviamente non abbiamo mai ha preso in seria considerazione tali affermazioni, poiché non ne derivavano operazioni politiche in sintonia con quanto propagandisticamente si affermava, ma osserviamo che, a degna conclusione di questa parabola e a conferma della nostra analisi, un partito, nato come presunto “cuore dell’opposizione” nel 1991, muore oggi come effettivo cuore del governo alla guida della settima potenza economica del mondo.

Il ministerialismo dei vari Ferrero non intaccherà i sogni tranquilli dei poteri forti italiani, e già scemano le illusioni di quei pochi che ancora credono nel “governismo” come unica pratica politica; si prepara il terreno, questo sì assai più fertile, per nuove e più sincere occasioni in cui cercare di far crescere e direzionare il futuro conflitto sociale in Italia senza più bisogno di tirare in mezzo il pacifismo.

Un conflitto sociale inserito nello scenario sopra descritto di cui, come la storia passata dimostra, né Prodi né Berlusconi saranno in grado di frenare cause, impeto e motivazioni dal momento che ambedue rappresentano facce sfumate di una stessa medaglia: interessi di una borghesia che, “produttiva o speculativa” che sia, è sempre nemica delle ragioni dei lavoratori.

Un conflitto che contribuirà certo a rivelare in maniera ancora più forte la natura di questo governo, ma che per vincere ha bisogno di una direzione politica alternativa agli apparati politici e sindacali riformisti; quella direzione che noi, con la nostra battaglia, vogliamo contribuire a costruire.

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