La battaglia nella Cgil per costruire il sindacato di classe
Enrico Pellegrini*
Circa un anno fa, tra solenni richiami alla sua storia e forti ritornelli evocativi della sua più pura tradizione, il maggior sindacato italiano si apprestava a celebrare il suo XV congresso sulla scia dei profondi turbamenti vissuti sotto il governo Berlusconi.
Fu deciso di anticiparlo rispetto al futuro appuntamento elettorale (che venne tenuto di lì a poco in aprile), ed oggi purtroppo se ne comprende appieno l’esigenza, già prevista a suo tempo, dal momento che il vero obiettivo non era quello di avviare una discussione interna su cui confrontarsi rispetto a quanto era in programma nell’agenda politica del paese, bensì quello impellente di blindarsi rispetto a ciò che in prospettiva ci si preparava ad affrontare e digerire in prossimità di una “nuova” stagione politica. Quando determinati momenti impongono scelte organizzative cosi drastiche e rigide, è chiaro che il risultato che ne consegue sarà un accordo burocratico interno (come del resto è avvenuto), soprattutto se il tutto viene rapportato ad un’organizzazione sindacale il cui pesante appoggio in termini di contenimento del malcontento sociale viene ad essere determinante per l’attuazione di certe scelte politiche scellerate.
La “deriva” della Cgil
In termini classici, un sindacato vive e si sviluppa agendo ed organizzando il conflitto sociale, si rafforza se avanza rivendicazioni sulle tematiche del lavoro, è credibile se offre un solido punto di riferimento, non solo democratico, di fronte alle chiusure del sistema e se ipotizza già nel suo crescere un rapporto vivo coi propri iscritti, la sua base, i suoi militanti.
Di fronte alla profonda mancanza di tutto questo, credo non sia fuori luogo porsi, oggi, un inquietante interrogativo: cosa sta diventando la Cgil?
Nell’ultima farsa congressuale, nella quale su finte assemblee di base (peraltro poco partecipate) regnava sfiducia e delusione, si consumava un dramma sociale più che allargato rispetto alla sfera sindacale stessa e si raggiungeva il più basso livello di opportunismo politico sindacale vissuto da questa confederazione nella sua storia.
Dalla spirale involutiva iniziata, indicativamente, dal ’79 in poi (svolta dell’Eur, inizio della politica dell’austerità) questo sindacato, comunque, ha sempre mantenuto, nonostante i fisiologici tentennamenti legati al vivere in mezzo alle compatibilità del sistema economico, un rapporto anche aspramente contraddittorio con i suoi rappresentati, dai quali è sempre dipeso (oggi in modo sempre più debole) anche economicamente.
Non siamo di fronte ad un normale passaggio di prassi politica contingente riferita alle “benevolenze” verso un governo “amico”, ad una condivisa nuova stretta dolorosa e necessaria per il rilancio di un’economia “debole” o ad un riallineamento di delicati equilibri sociali, economici e politici da far pagare ai lavoratori italiani. Oggi è in atto una mutazione che potremmo definire genetica, un cambiamento radicale rispetto a certi valori, a certi programmi, a certe pratiche di evidente scarso spessore democratico.
Solo in tal modo si può riassumere tutta l’operazione sul memorandum d’intesa firmato in tutta fretta, senza alcuna discussione, nelle varie realtà assembleari in Italia, senza alcun riferimento serio e preciso verso i milioni di lavoratori che ne pagheranno le conseguenze in un futuro ormai prossimo in cui la previdenza pubblica, dopo tali attacchi, sarà ulteriormente ridimensionata.
Quali pulsioni spingono moltissimi funzionari a sostenere l’intero impianto della futura vera “riforma” di questo governo avviata con il larghissimo consenso di grandi forze economiche? Perché tutto il malessere provocato da una tale disastrosa manovra viene contenuto e presentato come il necessario prezzo da pagare in virtù del recuperato ruolo che la stessa Cgil acquisirà all’interno di tali processi?
E non ultimo: come mai nei pochi luoghi adibiti a tali discussioni (direttivi, seminari, stage formativi, ecc.) si considera assolutamente irreversibile la crisi di un sistema previdenziale che non soffre oggi di una situazione oggettivamente negativa e le cui gravose spese di assistenza generale (ammortizzatori sociali, ecc.) un sindacato degno di tal nome dovrebbe, in termini di proposta, far ricadere sulla fiscalità generale?
La nostra battaglia nel sindacato per un sindacato di classe
Uniti alla pesante angoscia di vivere moltissimi contratti scaduti da diverso tempo e sulle cui piattaforme ci sarebbe da discutere (commercio, pubblico impiego, ecc.) sono interrogativi che rivelano un radicale cambiamento di ruoli e di strategie di questa organizzazione ed a cui occorre fornire una risposta; specialmente per chi, come noi, coerentemente è stato contrario a qualunque ipotesi concertativa passata.
Un sindacato che cambia lentamente il proprio corpo e non la propria pelle non accetta critiche, non subisce e non accetta alcuna lezione di democrazia proprio perché tali progetti finanziari sono sostenuti, condotti e legati da fruttuosi appetiti economici il cui peso in futuro sarà sempre più preponderante.
Solo così si spiega la chiusura della maggioranza del gruppo dirigente verso i cosiddetti “dissidenti” interni, colpevoli, tra le altre cose, nientemeno che di aver appoggiato un corteo contro la “precarietà” (4 novembre) e a cui va data la più piena solidarietà in riferimento al diritto di costruire il dissenso organizzato all’interno della confederazione.
Solidarietà che, però, non deve affatto significare subordinazione al progetto che Cremaschi ha in mente per la Rete 28 Aprile, che, così come è concepita, non è un soggetto credibile da un punto di vista organizzativo di classe, offre solamente una prospettiva di critica e pressione all’intero disegno epifaniano e vive, già oggi, un allarmante leaderismo seppur non ancora estremamente degenerato.
Tuttavia, nonostante le difficoltà che il nostro lavoro all’interno della Cgil incontra proprio a causa dei citati limiti, va detto che esso deve essere sviluppato proprio in questa nuova direzione. I molti nostri militanti debbono trovarvi spazio e ruolo per perseguire come primo obiettivo politico un progetto unificante delle varie posizioni di classe presenti anche in altre sigle sindacali. Accettare ed accogliere questa impostazione, significa denunciare apertamente ogni debolezza opportunistica di una linea politica ormai supina ai dettami del governo in cui, al di là di manifestazioni pubbliche di facciata (vedi quella recente sul tema immigrazione di Milano), poco o nulla di nuovo sembra emergere rispetto alle nostre passate previsioni.
Per questo, crediamo che, combattendo apertamente l’accelerata e completa degenerazione della Cgil e volgendo ed allargando il nostro scopo ai settori più combattivi che comunque, anche all’interno della Cgil, la classe esprime, sia possibile difendere l’idea stessa di fare sindacato costruendo il sindacato di classe per conquistare le avanguardie che i lavoratori esprimono nelle lotte alla prospettiva comunista.
Compito prioritario di Progetto Comunista è guidare tale percorso.
*Direttivo Filcams Cgil Venezia