Per una mobilitazione nazionale contro le basi militari
Riccardo Bocchese
La nuova base di guerra progettata dagli strateghi del Pentagono, che dovrebbe sorgere presso l’aeroporto Dal Molin di Vicenza, è stata definita testualmente dal ministro Parisi “coerente e compatibile con le politiche militari del governo”.
La mobilitazione che ha prodotto questo progetto, avviato già con il governo Berlusconi ma proseguito in perfetta sintonia col nuovo governo Prodi, ha portato lo scorso 2 dicembre oltre ventimila persone a scendere in piazza, lungo un percorso di 8 Km, dalla caserma Ederle all’aeroporto Dal Molin, e a urlare il loro No. Una mobilitazione che per la città di Vicenza forse non ha precedenti e che è cresciuta pian piano col diffondersi delle notizie e delle assemblee sul territorio, coi presidi durante i consigli comunali, con la costituzione di numerosi comitati cittadini nei diversi quartieri e nei comuni limitrofi e con l’organizzazione di tre manifestazioni locali di volta in volta più partecipate.
La partecipazione e l’indignazione sempre più massiccia di associazioni, sindacati di base, comitati sorti spontaneamente, hanno fatto sì che questa volta il problema non riuscisse a mantenersi nelle stanze della politica istituzionale. Questo è avvenuto nonostante la burocrazia sindacale della Cgil e i Ds abbiano provato in tutti i modi a frenare la protesta crescente, cercando di incanalarla in un rivolo istituzionale con la richiesta di un referendum cittadino, proposta che ha trovato sponda da parte di tutti i partiti di centrosinistra.
Imbrogli e ricatti governativi
Ma l’imbroglio tentato in un primo momento – e cioè l’indicazione, da parte del ministero, che il parere della città sarebbe stato vincolante – è apparso da subito un semplice tentativo da parte del governo di centrosinistra di addossare le proprie responsabilità alla giunta cittadina di centrodestra. Il consiglio comunale ha espresso il proprio parere favorevole al progetto Dal Molin, pur con alcuni piccoli distinguo, in una serata in cui almeno un migliaio di cittadini erano in Piazza dei Signori ad inaugurare la protesta rumorosa per almeno sei ore, con pentole e coperchi.
A quel punto la protesta si è indirizzata a chi veramente deve decidere e assumersi le responsabilità: il governo. L’assemblea permanente contro il progetto Dal Molin e tutte le servitù militari ha deciso un’altra protesta “rumorosa”, questa volta davanti al ministero della difesa a Roma.
La data indicata era venerdì 24 novembre. La data è stata annunciata con ampio margine di circa un mese anche al Prefetto al quale si è chiesto un incontro col ministro Parisi. Ma questa data è evidentemente apparsa scomoda al Ministero, come scomoda sarebbe stata una protesta di piazza con oltre un centinaio di persone di Vicenza che già avevano acquistato il biglietto per il treno e che a Roma avrebbero trovato diversi soggetti politici e sindacali ad accoglierli e ad accompagnarli nella protesta in giorni particolarmente caldi in Parlamento (mercoledì 22 un emendamento del centrodestra al senato veniva respinto per un solo voto).
Arrivava così, quarantotto ore prima della manifestazione, la telefonata della segreteria di Parisi che offriva un ricatto: “Il ministro Parisi incontrerà una delegazione dei comitati la sera di giovedì 23 novembre a condizione che la manifestazione del 24 venga sospesa”.
L’assemblea permanente, pur con alcune opinioni contrarie tra le quali quella di noi compagni di Progetto Comunista (ora PdAC), ha accettato il ricatto con la motivazione che è la prima volta che un comitato viene riconosciuto a livello istituzionale, con la possibilità (illusoria) di divenire interlocutori. Dalle persone che sono andate a rappresentare il comitato giungevano ampie “rassicurazioni” sul fatto che a Roma si sarebbe potuti andare dopo aver sentito Parisi (annunciavano già la data del 16 dicembre).
Il prezzo da pagare per la mancata manifestazione romana è stato alto: la questione che fino ad ora aveva avuto un risalto soprattutto locale, è rimasta confinata attorno alla città di Vicenza, non diventerà una questione nazionale contro l’apertura di nuove basi militari e per la chiusura e la riconversione di quelle già presenti. Da Parisi solo il ripetersi dell’inutile ritornello: la questione non è ancora decisa, i cittadini delle comunità locali devono esprimersi.
Contraddizioni
Le contraddizioni del centrosinistra emergono ogni giorno di più: prima al “solito convegno” organizzato dalla Cgil (che non voleva disturbare con una manifestazione a Roma…) dove sono arrivati parlamentari di tutto lo schieramento del centrosinistra e, successivamente, in occasione della stessa manifestazione nazionale del 2 dicembre.
Quest’ultima è stata così ben preparata attraverso dibattiti e incontri organizzati in tutta la provincia e la regione (ma anche in altre regioni) che la campagna di criminalizzazione messa in atto dal centrodestra – ma anche dalla parte moderata dei diessini, che con la loro segretaria provinciale dichiaravano questa essere una “manifestazione di criminali” – non è servita e ha costretto tutti, buoni ultimi quelli della Cgil (che hanno fatto un loro corteo partendo dallo stadio anziché da viale della Pace e che poi si sono fermati appena fuori dal centro storico, ben prima dell’aeroporto Dal Molin) a partecipare se non altro singolarmente (bandiere dei Ds non c’erano anche se in molti con lettere ai giornali pubblicizzavano la loro adesione).
Numerosi anche qui i parlamentari del centrosinistra, in rappresentanza di tutti i partiti di governo che nei giorni successivi si sono visti sbeffeggiati e sbugiardati anche dal quotidiano locale Il giornale di Vicenza che, mettendo a confronto le due manifestazioni nazionali, quella della destra a Roma e questa di Vicenza, si chiedevano perché questi deputati e senatori del centrosinistra, che avrebbero la possibilità di battere i pugni in parlamento (cosa che non fanno), di fatto sceglievano invece di sfilare in passerella concedendosi ai fotografi e ai giornalisti…
Contraddizioni che risaltano ancor più andando a spulciare tra i numeri della legge Finanziaria.
La Finanziaria di guerra
Tra le tante spese che questa Finanziaria taglia, c’è una voce di spesa che va in controtendenza e che sale. E’ la spesa militare. Una spesa che cresce addirittura del 5% rispetto all’ultima finanziaria del governo Berlusconi. 12 miliardi e 437 milioni di euro dai quali, come se non bastassero, sono esclusi i costi delle missioni all’estero (circa un altro miliardo di euro). Ma c’è di più. Carlo Bovini, su Repubblica, denuncia la presenza anche di un “Fondo per il sostegno dell’industria nazionale ad alto contenuto tecnologico”, dove per alto contenuto tecnologico deve leggersi “ricerca militare” e per industria nazionale “Finmeccanica”, industria per un terzo proprietà dello Stato, specializzata anche nel settore degli armamenti dove opera in regime sostanziale di monopolio per il mercato interno. Si tratta di un fondo che prevede oltre quattro miliardi di euro nel prossimo triennio: importi stratosferici che fanno chiedere al giornalista se a decidere sull’entità della spesa militare siano i ministri e il parlamento o non invece gli stati maggiori. “O, ancora – scrive Bovini – se a portare per mano gli uni e gli altri non sia l’industria degli armamenti. Un fatto è certo, i capi di Stato maggiore delle nostre forze armate hanno tolto l’uniforme per entrare senza soluzione di continuità nel top menagement delle società di Finmeccanica. Una legge dello Stato lo vieterebbe. Aggirarla è diventata una prassi”.
La mobilitazione paga
A manifestazione terminata noi compagni del collettivo di Vicenza di Progetto Comunista – Rol (ora PdAC) durante le riunioni dell’Assemblea Permanente, abbiamo evidenziato che risultati concreti, negli ultimi mesi di mobilitazione, ci sono stati in particolar modo quando la lotta era riuscita ad uscire dalle stanze istituzionali (interrogazioni parlamentari, richieste di referendum, appello a questo o quel politico o parlamentare o Prefetto). Il primo risultato, l’attenzione da parte del governo, è arrivato dopo la mobilitazione che voleva portare la protesta a Roma (risultato che è stato soffocato dal ricatto, purtroppo accettato, di un incontro col ministro Parisi in cambio della soppressione della manifestazione).
Il secondo risultato significativo è stata la mobilitazione di migliaia e migliaia di persone che, su un tema così grande come la guerra, gli armamenti e le basi, hanno voluto far sentire la loro voce, a dispetto di chi, forze politiche moderate e burocrazia sindacale concertativa della Cgil, ha sempre tenuto un basso profilo aderendo all’ultimo momento e con piattaforme politiche diverse alle manifestazioni e proponendo referendum e convegni vetrina.
Del resto la Difesa Usa ha già messo sul proprio sito il bando per la costruzione della nuova base al Dal Molin (nonostante il ministro Parisi continui a ripetere che il governo non ha deciso e che questa è un’iniziativa solo americana…) e già oltre trenta sono le ditte che si offrono per i lavori. Tra queste si trovano sì grandi multinazionali come per esempio la Telecom (evidentemente non pensano sia un progettino dal quale il governo possa far marcia indietro) ma si trova anche qualche cooperativa rossa emiliana.
Noi compagni del PdAC abbiamo rivendicato, insieme ad altri soggetti, la Rdb Cub e altri singoli, la necessità di riportare a Roma la protesta e di farlo nei giorni in cui la cosa avesse potuto creare scompiglio, come quelli durante i quali al senato si è discussa la fiducia alla finanziaria.
L’egemonia dei “Disobbedienti” nella lotta dei comitati
Nell’Assemblea Permanente le anime che maggiormente hanno gestito l’organizzazione e l’attività dei comitati, anche grazie a una maggior organizzazione e maggiori risorse finanziarie, sono stati “Il capannone” (che fa capo ai centri sociali del nordest) e alcuni esponenti dei Verdi. Da parte di questi soggetti c’è stato un rifiuto, dopo la clamorosa riuscita della manifestazione del 2 dicembre, di “disturbare il governo”. E’ stata espressa, in alternativa, la volontà di promuovere dal mese di gennaio fino a marzo, una sorta di referendum auto-gestito, e di continuare con le manifestazioni locali di informazione.
Iniziative queste che appaiono deboli e che non indicano nel governo il responsabile primo del progetto di costruzione della nuova base militare Usa. Iniziative tanto più sospette in quanto appaiono come un tacito “non disturbiamo il governo”, proprio nel momento in cui da una parte, nella piazza, c’è stata un fortissima mobilitazione, e dall’altra, al governo, c’era la preoccupazione per nuove questioni che potessero mettere in discussione la fragile maggioranza.
Gli esponenti dei Verdi e del centro sociale che qui a Vicenza li sostiene, prima durante i giorni critici dell’approvazione della Finanziaria e ora in previsione delle prossime elezioni provinciali di maggio, hanno decisamente rivelato la loro sostanza filo-governativa abbassando il livello dello scontro proprio nel momento in cui più alta era la tensione e l’attenzione sulla vicenda.
Vicenza, 18 dicembre 2006