Partito di Alternativa Comunista

Il documento economico approvato

I MARXISTI E LA CRISI DEL CAPITALISMO

Documento sull'analisi economica della fase

 

Ne Il Capitale, la sua opera più importante dedicata allo studio dell'economia capitalistica, Marx analizza i tratti fondamentali delle crisi cicliche del capitalismo:
1) Il capitalismo si caratterizza per essere un'economia che produce merci; ovvero, valori destinati alla vendita sul mercato.
2) Nella produzione di merci, solo la forza-lavoro crea valore nuovo. I macchinari e le materie prime si limitano a restituire il loro valore consumato.
3) Per questo, Marx distingue l'investimento che effettua la borghesia in capitale variabile o "v" (salari per acquistare forza-lavoro) e capitale costante o "c" (per l'acquisto degli altri fattori produttivi).
4) I capitalisti si appropriano di una frazione del valore nuovo prodotto dalla forza-lavoro poiché retribuiscono solo una parte di esso, corrispondente al salario. Questa frazione non retribuita Marx la chiama plusvalore.
5) Il plusvalore si estrae dalla produzione e si realizza sul mercato con la vendita delle merci diventando così la fonte del profitto dei capitalisti (l'aumento del capitale investito attraverso la capitalizzazione del plusvalore).
6) I capitalisti misurano il risultato dei loro investimenti attraverso il tasso di profitto. Ovvero, l'aumento del capitale investito dopo la chiusura del circolo produzione-vendita-capitalizzazione del plusvalore.
7) La concorrenza porta i capitalisti ad investire in maniera crescente nei macchinari e nella tecnologia per produrre di più e a minor costo. Cioè, tendono ad aumentare la parte del capitale costante (c) e a diminuire quella del capitale variabile (v). Queste diverse relazioni tra c e v determinano quella che Marx definisce la composizione organica del capitale.
8) L'aumento della parte di capitale costante permette, nella fase iniziale, un aumento del tasso di profitto. Questi elementi (aumento simultaneo degli investimenti e del tasso di profitto) costituiscono i tratti centrali della fase ascendente dei cicli dell'economia capitalista.
9) Successivamente, tuttavia, il tasso di profitto comincia a diminuire, in un processo che Marx studia nella sua legge della caduta tendenziale del saggio di profitto.
10) Con la caduta del tasso di profitto, i capitalisti cominciano a diminuire i propri investimenti. Si manifesta così il punto di svolta che inizia la fase discendente dei cicli economici (o crisi ciclica). Le crisi economiche sono, dunque, intrinseche al sistema capitalistico e alla sua struttura di funzionamento.
11) Con l'inversione di tendenza, la caduta del tasso di profitto è l'essenza di tutte le crisi capitalistiche. Tuttavia, questa essenza si rende visibile attraverso la forma di una crisi di sovrapproduzione, ovvero, cominciano ad apparire merci che non trovano sbocchi sul mercato, non trovano acquirenti. L'avvento del capitale finanziario, in epoca imperialistica, ha fatto si che certe crisi possano manifestarsi dapprima come crisi finanziarie, cioè, nel mercato dei capitali, o combinandosi tra queste e la sovrapproduzione di merci. Ma in tutti i casi, la fonte di tutte le crisi è la caduta del saggio di profitto.
12) Allo stesso tempo, le stesse crisi generano meccanismi per superare, per un periodo, le cause che le provocano: distruzione di capitali (serrate di imprese) e diminuzione di salari col ricatto della disoccupazione, aumentando così il tasso di plusvalore estratto dalla forza-lavoro. Inoltre, il capitalismo ha dato vita a tutta una serie di altri meccanismi per attenuare o evitare la caduta del tasso di profitto: centralizzazioni sempre più grandi delle imprese, sfruttamento di altri Paesi, l'intervento dello Stato ecc. Tuttavia, l'unico dispositivo che può sostenere il tasso di profitto in maniera consistente è l'aumento del plusvalore assoluto, cioè un aumento dei ritmi di produzione e di sfruttamento dei lavoratori più grande dell'investimento totale del capitale.

 

L'ANALISI FATTA DA MARX DELLE LEGGI FONAMENTALI CHE REGOLANO IL CAPITALISMO SONO ATTUALI PIU' CHE MAI E CI AIUTANO, FUORI DA OGNI VISIONE IMPRESSIONISTA, A CAPIRE GLI SCONVOLGIMENTI CHE STANNO ATTRAVERSANDO L'ECONOMIA MONDIALE

La crisi che sta travolgendo ormai da quasi due anni l'economia capitalista a livello mondiale sta facendo piazza pulita di tutte le teorie che, in special modo dopo il crollo del muro di Berlino, prevedevano che il capitalismo sarebbe stato l'unico sistema politico, economico e sociale in grado di garantire il benessere per l'intera umanità.
Oggi vediamo quanto quegli auspici fossero falsi, quanto quella pressante propaganda fosse basata su una errata interpretazione della realtà. I fatti parlano chiaro. Nessun ramo dell'economia è esente dalla crisi che infatti ha colpito sia la finanza che la produzione vera e propria. Non solo il capitalismo "anglosassone", quello che normalmente viene considerato maggiormente speculativo e ultraliberale, ma anche quello tradizionalmente chiamato "renano" - e che secondo qualcuno dovrebbe essere più attento alla giustizia e alla pace sociale (caratteristico dell'Europa continentale) - ha dimostrato il suo fallimento.
Sono fallite o sono in enorme difficoltà non solo le banche che più hanno fatto uso degli strumenti tipici della finanza creativa (Merryl Linch, Lehman Brothers) ma anche quelle che si pregiavano di seguire un'impostazione più classica, prudente, nei loro affari (come la banche italiani, francesi e tedesche).
Stiamo assistendo al crollo della produzione e degli investimenti sia nei settori più "maturi" dell'economia di mercato (produzione acciaio, elettrodomestici, auto ecc.) sia in quelli innovativi, che fino a qualche tempo fa venivano indicati come la base per garantire una crescita senza fine dell'economia (internet, telecomunicazioni, software e hardware informatico, ecc.).
Il fatto che la crisi, come detto in precedenza, sia globale, abbia colpito le maggiori potenze imperialiste, così come i Paesi in via di sviluppo o i cosiddetti Bric (brasile, Russia, India Cina), che, pur avendo inizio nel settore immobiliare americano, non sia stata circoscritta ad esso, ma si sia rapidamente propagata ai mercati azionari, alla finanza e alla produzione manifatturiera dimostra come oggi ci troviamo di fronte ad una crisi del capitalismo nel suo complesso.
Negli ultimi tempi, tuttavia, si comincia a sentire qualche voce ottimista sul futuro. L'amministratore delegato della Fiat, ad esempio, ha detto che il peggio è alle spalle. Alcuni dati statistici (contenuti aumenti del Pil negli ultimi trimestri 2009 in Usa e altri Paesi) sembrano suffragare questi auspici. Tuttavia, a un'analisi più accurata, possiamo affermare che questi dati non indicano l'inizio di un'inversione di tendenza, ma sono solo normali fluttuazioni all'interno di un ciclo che rimane in profonda recessione.
Nel 2009 il Pil mondiale è calato (tra lo 0,5 e l'1,5%) per la prima volta dal dopoguerra. Particolarmente pesante è stata la contrazione per Giappone e Germania (- 5%) e USA (-2,8%). Dopo un decennio di crescita a due cifre la Cina aumenterà il PIL del 7%. Assisteremo ad un'esplosione del deficit di bilancio di molti Stati (per gli Usa si prevede un deficit di 1800 miliardi di dollari, pari al 13% del PIL) così come dell'indebitamento sovrano degli stati (nel 2010 vi saranno nuove emissioni di titoli di stato per oltre 2000 miliardi i di dollari).
Se a ciò aggiungiamo che Banca del Giappone, Federal Reserve (FED) e Bank of England (BOE) hanno azzerato il tasso di sconto (facilitando i deboli segnali di ripresa di cui sopra), che FED e BOE hanno dato il via a quella che gli economisti chiamano "quantitive easing" cioè alla stampa di nuova moneta (col rischio che tutto ciò crei nuove tendenze inflazioniste), che necessariamente anche la BCE dovrà seguirle in questa strada per evitare un eccessivo rafforzamento dell'Euro e quindi una perdita di competitività delle merci europee, possiamo affermare che la luce in fondo al tunnel della crisi al momento non è ancora visibile.

 

LA SITUAZIONE ITALIANA: NON UN CASO A SE', MA IL FRUTTO DELLO SVILUPPO DI UNA POTENZA IMPERIALISTA NEL QUADRO DELL'ECONOMIA GLOBALIZZATA

Anche l'Italia, come ormai tutti i Paesi del mondo, è entrata in una profonda recessione economica, dalla quale, a differenza di altri Paesi, le sarà più complicato uscire, per vari fattori che rendono oggi il Belpaese l'anello più debole della catena imperialista mondiale.
Per diverso tempo il primo ministro Berlusconi e il suo ministro delle finanze Tremonti hanno cercato di negare prima e minimizzare poi gli effetti della crisi, iniziata con lo scoppio della bolla immobiliare negli Usa, sull'economia italiana.
A giustificazioni di queste analisi, hanno usato argomenti di vecchia data: hanno affermato che l'Italia non sarebbe caduta in recessione per il fatto di essere poco sviluppata e non completamente integrata nel circuito economico finanziario internazionale, per il fatto che le banche e le industrie nazionali non si erano lanciate negli anni passati in operazioni di speculazione finanziarie come viceversa hanno fatto i loro concorrenti stranieri, che grazie a tutto ciò il Paese sarebbe stato solo sfiorato dalla peggiore tempesta economica degli ultimi decenni.
Si tratta come detto di argomenti già usati in passato. Il mito di una nazione nella quale il percorso di modernizzazione politico, economico e sociale, non è stato mai completato è servito in passato al Partito Comunista Italiano (nella sua versione stalinista ortodossa sia in quella più soft dell'Eurocomunismo) per giustificare la politica di fronte popolare, di alleanze tra gli operai e la borghesia democratica, al fine di "completare la rivoluzione democratica del Paese", relegando le rivendicazioni socialiste alla liturgia delle ricorrenze principali del movimento operaio. Ma argomenti simili sono stati usati anche da settori della destra (non solo quella fascista ma anche liberale) nel secolo scorso per unire attorno a sé gli strati popolari del Paese, in rivendicazioni nazionaliste in cui la nazione operaia e contadina italiana rivendicava il suo posto al tavolo delle maggiori potenze imperialiste.
Queste previsioni, o meglio questi desideri, hanno lasciato presto il posto alla realtà. L'Italia nel nel 2009 è stata in recessione economica e per il 2010 le previsioni dei maggiori centri di studio non lasciano molte speranze per una ripresa significativa.
D'altronde, che la rappresentazione autarchica del Paese sia del tutto falsa lo dimostra il fatto che le maggiori imprese, banche e assicurazioni italiane negli anni si sono impegnate in una fortissima espansione internazionale: dalla Fiat che ha fabbriche nei quattro angoli del pianeta, alle banche Unicredit e Intesasanpaolo, che hanno nei fatti monopolizzato i mercati est europei, all'Eni e all'Enel che sono tra i maggiori attori nel mercato globale del petrolio e dell'energia elettrica.
Sulle possibilità di una ripresa economica, e su quanto questa possa essere strutturale e non congiunturale, dipende ovviamente da vari fattori, ma per l'Italia le difficoltà rischiano di essere maggiori che per altri Paesi.
Le politiche degli ultimi anni, in particolare quelle iniziate all'epoca dell'ultima recessione economica del 1993, hanno certamente permesso alle classi dominanti del Paese di ottenere delle grandi vittorie a spese delle classi subalterne. L'ingresso nell'Euro è la migliore rappresentazione di questo successo. Tuttavia, questo non ha risolto alcuni problemi di fondo della struttura economico finanziaria del Paese, che la crisi attuale rischia di far emergere in maniera prepotente. Prima di tutto bisogna rilevare che il bilancio statale continua a essere in una condizione difficile, tale da rendere l'Italia un'osservata speciale da parte di tutti gli istituti finanziari internazionali. Quest'anno è previsto un deficit di bilancio del 5% che, pur essendo fuori dai parametri di Maastricht, di per sé non è, per i tecnocrati dell'Unone Europea, particolarmente rilevante, visto che in situazioni simili si troveranno diversi Paesi della zona euro. Tuttavia è il dato relativo al debito pubblico quello che desta le maggiori preoccupazioni. Nel 2009 è tornato a salire prepotentemente, arrivando al 120% del PIL, con quali conseguenze è facile prevedere. Questa situazione rischia di avere altri gravi effetti:
1) Lo Stato italiano rischia il default anche nel caso una sola asta di titoli pubblici fallisca o le sottoscrizioni siano inferiori a quanto offerto. Non è solo un'ipotesi di scuola: una cosa simile è capitata all'inizio del 2009 a un'asta dei titoli di stato tedeschi e a metà marzo in Gran Bretagna. Se aggiungiamo che nel corso del 2010 ci sarà un'enorme offerta di titoli governativi a livello mondiale, a causa della ingente richiesta di capitali necessari ai vari governi per finanziare i loro tentativi di allentare i morsi della crisi, c'è il rischio di gravi tensioni per il governo di Roma. Un eventuale fallimento del cosiddetto "debito sovrano" di alcuni Paesi (Grecia in testa) - possibile anche se improbabile - non potrà non avere ripercussioni anche per i conti pubblici nazionali.
2) Oggi il voto che le agenzie di rating danno al debito italiano è uno dei più bassi tra i Paesi avanzati. Altre bocciature rischierebbero di far saltare le casse pubbliche. Questo comporta che il governo italiano si trova in grosse difficoltà nel concedere tutti quei finanziamenti necessari per salvare le imprese. Attualmente sono state stanziate cifre molto inferiori rispetto a quanto hanno fatto altri Paesi. Questo sta rendendo molto nervosi e critici gli industriali italiani, che, quando si tratta della difesa dei loro profitti, diventano i maggiori sostenitori dell'intervento statale, aborrito quando invece serve per cercare di difendere operai, studenti e disoccupati.
Anche la struttura economica nazionale rende le prospettive di ripresa più incerte rispetto alle altre potenze imperialiste. Circa il 90% delle imprese nazionali sono di piccole o piccolissime dimensioni. Questo va ad influire su diversi aspetti, come la capacità di fare un investimento per aumentare la produttività del lavoro, ottenere finanziamenti dalle banche a condizioni favorevoli, ecc.
Per quanto concerne la produttività, i dati sono indicativi. Pur avendo una media di ore lavorate per addetto superiore rispetto alla media dei Paesi OCSE (1824 contro 1794), la produttività media oraria è aumentata nel quinquennio 2001-2006 solo dello 0,5%, a fronte di una media dell'1,5.
Infatti negli ultimi anni il capitalismo italiano ha puntato prevalentemente sullo sfruttamento feroce dei lavoratori - piuttosto che su investimenti in tecnologia che aumentassero la produttività lavorativa - e su attività economiche gestite in regime di monopolio quasi assoluto, grazie alla assenza di concorrenza straniera (gestione delle autostrade, servizi telefonici, di erogazione di luce, acqua, gas, energia elettrica e anche di servizi finanziari a imprese e cittadini) i cui prezzi applicati hanno garantito enormi profitti.
Tuttavia, in una situazione simile si trovano anche aziende multinazionali che sono considerate il fiore all'occhiello del Paese. Le acciaierie Riva, ad esempio, che sono tra i maggiori produttori di acciaio al mondo, hanno però un tipo di produzione qualitativamente bassa, il che li rende competitivi con quelle produzioni dei Paesi meno avanzati industrialmente e che, allo stesso tempo, possono avere il vantaggio di una manodopera meno cara e numericamente superiore rispetto a quella del loro concorrente italiano, rendendo la produzione di quest'ultimo maggiormente a rischio.
La stessa Fiat, che negli ultimi tempi era stata portata ad esempio di come un nuovo management aziendale potesse risollevare un'azienda in crisi, è oggi in una situazione assai meno florida di come la si vorrebbe rappresentare.
Secondo uno studio di CSM Worldwide, la capacità produttiva delle sue fabbriche in Europa passerà dal 70,3% del 2008 al 63,9% del 2009, e in particolare le 5 fabbriche italiane producono grossomodo lo stesso numero di autovetture del solo stabilimento polacco. Se aggiungiamo che la sua produzione è stata molto più bassa dei suoi concorrenti, anche negli anni passati, quando il mercato dell'auto ha beneficiato di un boom come non si vedeva da anni, possiamo intuire che in quegli anni è stata meno in grado di altri di beneficiare di una situazione favorevole.
Ecco perché, secondo alcuni analisti, il valore di Fiat, escluso il settore camion e macchine per l'agricoltura, è uguale a zero, e la fusione con l'americana Chrysler, la più in crisi delle Big Three di Detroit, appare come un disperato tentativo di salvare il salvabile.
Anche per il settore finanziario, che negli ultimi tempi aveva dato vita a una serie di concentrazioni e fusioni, con la creazione di veri e propri "campioni nazionali" in grado di competere con gli istituti bancari esteri per la conquista dei mercati globali, le cose non vanno affatto bene.
Unicredit, che per lungo tempo era diventato l'emblema della finanza italiana nel mondo, è il simbolo di questa situazione. Nel corso del 2009 ha visto crollare il suo valore di borsa e un peggioramento degli indici patrimoniali, tanto che il suo fallimento è stato per lungo tempo all'ordine del giorno. Ora la situazione sembra essere migliorata, anche grazie a due aumenti di capitale di circa 10 miliardi di euro, ma ciò nonostante la banca di Piazza Cordusio risulta ancora nella lista delle 20 banche mondiali a maggior rischio di bancarotta. Discorso simile per l'altra grande banca, Intesasanpaolo, che ha dovuto annullare la distribuzione del dividendo agli azionisti, al fine di rientrare nei parametri contabili stabiliti dai trattati di Basilea. In una situazione peggiore si trovano anche banche come il Banco Popolare Italiano e il Monte dei Paschi (roccaforte della cosiddetta finanza rossa, in quanto i suoi dirigenti sono nominati dalle amministrazioni locali della città di Siena, governata dal Partito Democratico), che avevano concentrato i loro affari prevalentemente in Italia, a riprova che la crisi colpisce non solo chi internazionalizza la propria attività.
Da ultimo, la stessa composizione del PIL non fa ben sperare per il futuro. Negli ultimi anni, è stato grazie alle esportazioni (che valgono circa il 20% del prodotto interno lordo) che l'economia italiana ha retto, seppur con molte difficoltà.
Oggi però questo rischia di essere un elemento di debolezza più che di forza. Intanto, perché anche altri Paesi che hanno fatto dell'export il loro punto di forza (Germania e Cina) sono quelli che subiranno un maggior rallentamento della crescita, in quanto uno dei risultati della crisi in corso è che vi saranno una contrazione del commercio mondiale e uno stimolo a tendenze protezionistiche nei vari Paesi.
In secondo luogo, perché l'Italia ha primeggiato in settori "deboli" dal punto di vista tecnologico (abbigliamento, tessile, alimentare) mentre ormai è debole (meccanica) o completamente assente da quelli più avanzati (chimica, farmaceutica ed elettronica, produzione di satelliti ad uso civile ecc.), quindi, come ricordavamo poco sopra, dovrà subire la feroce concorrenza di Paesi che possono beneficiare di un'enorme manodopera a buon mercato (agenzie internazionali stimano che l'export italiano tornerà a livelli pre-crisi solo fra 15-20 anni).

 

SOLO LA LOTTA DI CLASSE INTERNAZIONALE, DIRETTA DA UN PARTITO CONSEGUENTEMENTE COMUNISTA, PUO' DARE UNA RISPOSTA PROGRESSIVA PER I LAVORATORI

In conclusione, l'uragano che sta devastando l'economia mondiale sta mettendo a rischio la tenuta dell'impalcatura dell'egemonia capitalista. Oltre alla possibilità concreta di vedere in breve tempo svanire la concordia, molto di facciata, che ha caratterizzato i rapporti tra le varie potenze negli ultimi venti anni (basti pensare alle accuse circa una mancanza di scelte politiche incisive per affrontare la crisi, rivolte dagli Usa all'Europa; le tensioni tra gli stessi Paesi della UE, i duri proclami della burocrazia restaurazionista cinese contro le tendenze protezioniste della Casa Bianca), assistiamo anche a una ripresa della conflittualità di classe a livello mondiale.
Francia, Spagna, Portogallo e Grecia sono oggi le punte avanzate di questa ripresa della conflittualità operaia. A breve una situazione simile potrà verificarsi in Italia, Germania, Gran Bretagna, America Latina, Africa e nello stesso epicentro della crisi, gli Usa. Compito di un'organizzazione rivoluzionaria è quello di incanalare l'enorme rabbia popolare che già oggi colpisce le persone e i simboli del capitalismo (le cronache ci raccontano di sequestri di manager di multinazionali a opera di lavoratori licenziati, di assalti alle abitazioni dei banchieri che si sono arricchite speculando sui risparmi dei lavoratori, ecc.) verso un fine più ampio, pur se molto difficile: quello del rovesciamento per via rivoluzionaria del dominio del capitale sul lavoro.

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