Partito di Alternativa Comunista

Lenin e i sindacati. Gli insegnamenti più importanti (e ancora attuali) del dirigente bolscevico

Lenin e i sindacati. Gli insegnamenti più importanti

(e ancora attuali) del dirigente bolscevico

 

 

 

di Diego Bossi (operaio Pirelli)

 

 

Un secolo dopo la scomparsa di Lenin pulsano vividi i suoi insegnamenti. In questo articolo ci dedicheremo all’intervento dei comunisti nei sindacati e all’apporto fondamentale di Lenin: un’eredità imprescindibile nella storia del movimento operaio, che ha bucato i decenni per giungere ai giorni nostri più attuale che mai.
Non potendo qui, per ovvie ragioni di spazio, fare una disamina completa dell’opera leniniana sui sindacati, attingeremo da quest’ultima i testi e i relativi ambiti storici più rilevanti, sperando di restituire ai lavoratori che ci leggono l’essenziale del leninismo nelle loro lotte sindacali.

 

La questione della spontaneità delle masse

Nel 1902 Lenin firma il Che fare?, senza dubbio uno dei suoi scritti più importanti dal punto di vista politico dove, con la sua proverbiale prosa, pungente ed efficace, inizia a tracciare il solco che dividerà la socialdemocrazia russa.
Lenin concordava col partito sul fatto che la forza del movimento operaio consisteva nel risveglio delle masse, ma aggiungeva che il punto debole del movimento era la mancanza di coscienza e di iniziativa dei dirigenti rivoluzionari. Quest’ultima sua asserzione aprì una polemica importante all’interno della socialdemocrazia circa la spontaneità delle masse.
Per Lenin i lavoratori, spontaneamente, potevano solo sviluppare lotte sindacali, poiché la coscienza socialista poteva essere portata solo dall’esterno, di qui muoveva il ruolo del partito rivoluzionario.
Sul fronte opposto gli economicisti esortavano gli operai alla sola lotta economica e sindacale, argomentando che essa, a differenza della lotta politica per un socialismo astratto e riservato a indefinite generazioni future, fosse concreta, efficace e tangibile nella vita quotidiana dei lavoratori e dei loro figli: una narrazione che fece sicuramente presa sugli operai ma che portò a un arretramento di classe sul terreno politico.

 

La menomazione dell’elemento cosciente

Al concetto di spontaneità delle masse, Lenin contrappose l’elemento metodico cosciente. Come abbiamo visto sopra, le masse spontaneamente potevano sviluppare la lotta dallo stato primitivo di disperazione disorganizzata e vendetta fino al livello sindacale, vale a dire la consapevolezza dei lavoratori di organizzarsi in sindacati, elaborare rivendicazioni comuni e tattiche per conquistarle. La consapevolezza della necessità del socialismo doveva — e deve! — essere portata nella classe dall’esterno. Su questo punto Lenin investì una parte importante del Che fare?, dove, riprendendo le parole di Kautsky (con cui anni dopo romperà politicamente) criticò i marxisti ortodossi per la loro concezione meccanicista della storia: la coscienza socialista come portato diretto e automatico della lotta di classe. Scriveva Kautsky: «socialismo e lotta di classe nascono uno accanto all’altra, non uno dall’altra».
Dal momento che in un contesto storico caratterizzato da forti antagonismi di classe non può esserci un’ideologia indipendente elaborata dalle masse operaie al di sopra e al di fuori delle classi, possono esistere solo due ideologie: il capitalismo e il socialismo; e siccome la spontaneità delle masse può raggiungere solo il livello sindacale, che non mette in discussione il capitalismo, ne consegue che ogni sottomissione alla spontaneità e ogni menomazione dell’elemento cosciente portato dall’esterno si traduce in un rafforzamento dell’influenza borghese. Un concetto dirompente, di una potenza rara, perché tutt’ora collide contro la percezione di molte avanguardie operaie di lotta: il solo livello sindacale, spoglio di una militanza politica nel partito comunista rivoluzionario, è l’asservimento ideologico ai padroni, l’accettazione passiva a non superare il perimetro da loro imposto.
Questa è una prima immensa eredità del compagno Lenin, che scuotendo il Posdr (Partito operaio socialdemocratico russo, ndr) come in un terremoto, formò le crepe necessarie alla formazione del partito d’avanguardia.

 

Il partito e il sindacato

Per Lenin il partito d’avanguardia doveva essere organizzativamente separato dal sindacato, nel senso che un conto era ambire a dirigere le associazioni di lotta, altra cosa era inglobarle al partito. Questo importante concetto fu ripreso anche in un importante testo del 1904, Un passo avanti e due indietro, un anno dopo lo storico congresso del Posdr, svoltosi tra Bruxelles e Londra, che sancì la distinzione tra Bolscevichi e Menscevichi. Includere i sindacati nel partito d’avanguardia avrebbe causato importanti danni sia nei sindacati sia nel partito: nei primi avrebbe alimentato divisioni tra i lavoratori e indebolito la solidarietà operaia, nel secondo avrebbe diluito l’avanguardia rivoluzionaria nel mare della retroguardia, avrebbe «spalancato le porte del partito — per usare le parole di Lenin — all’amorfismo e all’incostanza». Per questo era importante la separazione organizzativa tra il partito rivoluzionario e i sindacati, una questione che occupò non poco i dirigenti rivoluzionari, Trotsky anni dopo avrebbe ripreso copiosamente il tema del rapporto tra sindacato e partito, utilizzando l’espressione molto chiara ed efficace che definiva l’uno «la classe com’è» e l’altro «la classe come dev’essere».
Lenin, in quei primi anni del ‘900, conduceva una battaglia determinata all’interno della socialdemocrazia russa per costruire un partito di avanguardie operaie delimitato sia nell’organizzazione sia nel programma; non un’organizzazione di massa, non un circolo di benpensanti, ma uno strumento per la guerra di classe in grado di intervenire e influenzare le masse: «Il partito deve sforzarsi e si sforzerà di permeare del proprio spirito, di subordinare alla propria influenza le unioni di categoria, ma proprio nell’interesse di questa influenza deve separare gli elementi pienamente socialdemocratici (che entrano nel partito socialdemocratico) da quelli non pienamente coscienti e politicamente non del tutto attivi, e non confondere gli uni con gli altri…».

 

Separare l’organizzazione non significa separarsi dai lavoratori

Nella sua opera del 1908, La neutralità dei sindacati, Lenin spiega molto bene le posizioni in campo delle tre frazioni socialiste russe, che si esplicheranno in un comizio di operai aderenti ai sindacati tenutosi nel 1905.
Per i menscevichi, che applicavano erroneamente il marxismo in maniera rigida e ortodossa, il partito e il sindacato dovevano essere distinti nettamente, separando fra essi i loro compiti: il partito doveva occuparsi dell’instaurazione del regime socialista e il sindacato di vendere al meglio la forza lavoro degli operai nel quadro del capitalismo. Questa impostazione portava quindi all’apartiticità dei sindacati.
Per i bolscevichi, al contrario — e ferma restando la separazione organizzativa di cui sopra — il partito doveva essere strettamente legato al sindacato, puntando a dirigerlo esercitando la sua sfera d’influenza e, al contempo, rispettandone l’autonomia.
A queste due posizioni che albergavano all’interno del Posdr, si aggiungeva la posizione dei socialisti rivoluzionari, che propugnavano l’apartiticità dei sindacati ma senza limitazioni rigide, aprendo a una fumosa partecipazione, su base volontaria, a qualsivoglia forma di cerchia ristretta.
Se la polemica coi menscevichi risulta chiara per i motivi fin qui spiegati, la polemica coi socialisti rivoluzionari risulta essere subdola e fuorviante, poiché la loro posizione può essere definibile come il classico voler tenere il piede in due scarpe: da una parte l’apartiticità in salsa menscevica, dall’altra, al contempo, si cercava maldestramente di posizionarsi alle latitudini bolsceviche aprendo alla possibilità, per i lavoratori organizzati nel sindacato, di impegnarsi politicamente in forme organizzative ristrette: quali avrebbero dovuto essere queste «forme organizzative ristrette» e come avrebbe dovuto formalizzarsi questo impegno, non è dato sapere.
Ma la vera polpa succosa di questa polemica esploderà due anni dopo, dove in seguito alla risoluzione che confermava la posizione bolscevica (stretto legame tra partito e sindacato) del congresso della Seconda Internazionale svoltosi a Stoccarda nel 1907, i socialisti rivoluzionari riuscirono nell’audace impresa di intestarsi una «vittoria» strumentalizzando la risoluzione stessa, laddove questa sanciva l’autonomia di entrambe le organizzazioni (partito e sindacato) nei loro relativi campi d’azione naturali. Scriverà così Lenin: «Per imbrogliare la questione estremamente chiara i socialisti-rivoluzionari hanno confuso, nel più spassoso dei modi, l’autonomia dei sindacati nella lotta economica con la loro apartiticità», un fendente necessario quanto istruttivo perché in grado di far emergere una questione dirimente: i sindacati, nei loro compiti naturali, devono essere autonomi, non inglobati burocraticamente nel partito; ma non apartitici, poiché in assenza del partito comunista rivoluzionario, unico soggetto in grado di portare il socialismo nelle lotte, si spianerà la strada dell’ideologia borghese che non mirerà a spezzare le catene del capitale ma, al massimo e dopo dure lotte, concederà qualche centimetro in più.

 

Il programma e l’unità di sciopero: Lenin contro Plekhanov

La neutralità dei sindacati è un testo prezioso per le avanguardie di lotta, poiché riporta polemiche importanti che sono attuali e ricorrenti e rappresentano visioni e dubbi tutt’altro che astratti.
Una delle polemiche più importanti si focalizzava sul rapporto tra l’unità d’azione dei lavoratori e il programma dei comunisti. Per Plekhanov era dannoso portare divergenze politiche all’interno dei sindacati perché avrebbe rischiato di rompere l’unità di sciopero tra i lavoratori. Lenin contrastava questa posizione perché era inevitabile portare le divergenze politiche nei sindacati, dal momento che bisognava contendere la loro direzione politica ai dirigenti riformisti e opportunisti. Per Lenin l’unità di sciopero fra gli operai andava mantenuta persino coi settori monarchici, ma il prezzo non doveva essere quello di edulcorare le proprie parole d’ordine o addirittura accodarsi ai settori più arretrati, al contrario: i comunisti dovevano portare apertamente la posizione del partito nei sindacati e negli ambienti operai.
In termini più generali la questione del rapporto tra l’unità d’azione dei lavoratori e la linea proposta dal partito è un tema centrale per l’intervento dei comunisti, specialmente in contesti come quello italiano, dove rompere l’unità di lotta, nell’agone spietato del sindacalismo di base, è la norma.

 

Il piedistallo degli «estremisti»

Dopo la vittoriosa rivoluzione russa Lenin fu impegnato a lungo nella lotta contro la reazione delle armate bianche e per il consolidamento delle conquiste rivoluzionarie. Se la sua polemica fu incessante contro i socialdemocratici, al contempo non risparmiò forti e accese critiche ai cosiddetti estremisti, vale a dire a coloro che, credendosi gli unici depositari del marxismo, facevano di esso una caricatura, quasi fosse una religione. Costoro non partecipavano alle elezioni, negavano l’esistenza della questione nazionale e si rifiutavano di militare nei sindacati burocratici.
In particolare su quest’ultimo aspetto gli estremisti predicavano — verbo quanto mai appropriato — l’uscita dai sindacati reazionari in favore della costruzione di sindacati ad hoc composti da sole avanguardie operaie. Per Lenin questa impostazione era astratta e completamente scollata dalla realtà: «Noi possiamo (e dobbiamo) incominciare a costruire il socialismo non con un materiale umano fantastico e creato appositamente da noi, ma con il materiale che il capitalismo ci ha lasciato in eredità. Ciò è senza dubbio molto “difficile”. Ma ogni altro modo di affrontare il compito è così poco serio, che non vale la pena di parlarne», così scrisse il dirigente bolscevico in un libro, L’estremismo, malattia infantile del comunismo, del 1920. Con questa polemica Lenin metteva in guardia dalle derive avanguardiste, dove le avanguardie, appunto, venivano isolate e separate dalle masse: una direzione ostinata e contraria a quella compenetrazione necessaria tra i militanti del partito e i lavoratori organizzati nei sindacati.
I sindacati inevitabilmente assumono tratti reazionari e corporativi, il compito del partito è educare il proletariato, dirigere i sindacati per preparare i lavoratori a dirigere l’intera società. È difficile non fare nuovamente ricorso alle parole di Lenin, poiché non esiste un modo più chiaro ed efficace per restituire a chi ci legge il suo messaggio: «La Conquista del potere politico da parte del proletariato è un gigantesco passo innanzi che il proletariato, come classe, ha compiuto, e il partito deve ancor più, in una forma nuova e non soltanto come prima, educare i sindacati, dirigerli; ma in pari tempo non dimenticando peraltro che essi sono, e a lungo ancora resteranno, una necessaria "scuola di comunismo" e una scuola preparatoria per la realizzazione, da parte dei proletari, della loro dittatura, una unione necessaria degli operai per il graduale passaggio dell'amministrazione di tutta l'economia del paese nelle mani della classe operaia (e non di singole professioni), e quindi nelle mani di tutti i lavoratori».

 

Il suo lascito, il nostro patrimonio

È percezione diffusa e prevalente, tra i lavoratori, che le dinamiche politiche, comprese quelle in ambito sindacale, che connotano la loro quotidianità, siano figlie del tempo in cui viviamo. A dire il vero, ad essere sintonizzate su questa stessa frequenza, vi sono anche molte avanguardie di lotta, validi operai combattenti, impavidi, carismatici e capaci di dirigere le lotte sindacali.
Uno dei primi effetti dello studio e della lettura dei classici è proprio quello di infrangere questa percezione, facendo scoprire ai lavoratori che quanto succede loro oggi, in realtà, arriva da lontano, non è nulla di esclusivamente contemporaneo né di contingente.
A un secolo dalla morte di Lenin celebriamo la sua vita e la sua opera. L’apporto inestimabile di questo immenso rivoluzionario che ha vissuto e co-diretto il più grande capitolo della guerra di classe che la storia dell’umanità abbia mai conosciuto, la Rivoluzione d’ottobre, accompagna le lotte quotidiane di milioni di lavoratori in tutto il mondo.
Anche oggi, così come allora, nelle nostre lotte quotidiane ci troviamo di fronte a chi dice che i partiti (tutti i partiti!) devono stare lontano dai sindacati; che è sufficiente ed è più importante la sola lotta economica per il salario; o, per converso, che i comunisti devono uscire dai sindacati burocratici e non perdere il loro tempo tra le masse arretrate; che i lavoratori nei sindacati non dovrebbero occuparsi di politica e così via, per una lunga serie di tentativi da parte di dirigenti opportunisti, riformisti, anarco-sindacalisti ed estremisti di ogni risma che vogliono mantenere in vita il capitalismo, frapponendosi a gamba tesa tra i lavoratori e la loro avanguardia cosciente e organizzata.
Oggi, come comunisti, ci impegniamo a costruire nelle lotte vive un partito d’avanguardia, capace di intervenire nei sindacati e nei movimenti per assumerne la direzione o estendere la propria influenza, per portare il socialismo in ogni scontro che il conflitto di classe produce; un partito rivoluzionario d’avanguardia che, per essere tale, deve avere una delimitazione organizzativa e programmatica; un partito il cui intervento dei militanti deve essere speso proprio là, dove ci sono i lavoratori, anche se questi fossero organizzati nei sindacati più reazionari. Se oggi sappiamo tutto questo, lo dobbiamo anche e soprattutto al lascito del compagno Lenin, fondatore e massimo dirigente del partito bolscevico. Un patrimonio che guida ancora oggi il nostro impegno nella lotta di classe; un impegno attivo, concreto, quotidiano, che non si limita alle pagine di questo giornale, ma è presente in tanti campi di battaglia, tra i lavoratori, contro i padroni e i loro governi
Questo è il partito che vogliamo costruire. Questo è il miglior tributo a Lenin.

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